Luce Bianca

Lo spettacolo denuncia e smaschera gli orrori e i soprusi del Mondo, un pianeta oramai talmente omertoso e disabituato a vedere il Male da divenirne cieco, malattia auto indotta dalla propria ottusità, viltà e pigrizia.

Una figura di donna, la protagonista, guida il pubblico all’interno della narrazione donando agli spettatori stessi il ruolo di primi accecati dalla Luce Bianca e li conduce con la narrazione verso la guarigione, ma dopo essere passati per la consapevolezza.

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RECENSIONI

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Da "Il potere di chi non vede / Doit Festival Drammaturgie Oltre Il Teatro"
recensione di Gianluca Valle
(su "Persinsala")

Ottobre 4, 2020

Doit Festival Drammaturgie oltre il Teatro ha coraggiosamente aperto i battenti anche quest’anno, adottando in modo impeccabile le ben note misure di sicurezza, con il prezioso sostegno di Ar.MaTeatro, diretto da Daria Veronese. Dal 25 settembre al 3 ottobre, il pubblico ha avuto la possibilità di assistere in un’atmosfera accogliente e sicura ai sei spettacoli in concorso. Alla fine di ogni rappresentazione, una breve conversazione con gli artisti, come di consueto, accompagna le operazioni di voto degli spettatori e di una giuria formata da critici e da giovani, che determineranno il vincitore di questa edizione.

Nella serata del 25 è andato in scena Luce bianca, liberamente ispirato al romanzo Cecità di Saramago, in cui un’infaticabile Silvana Mariniello – nell’arco di un’ora di esibizione – squaderna una trama assai articolata. La posta in gioco è alta: l’attrice è chiamata a generare volti e situazioni che si avvitano in un rocambolesco climax di degradazione e di pervertimento, davanti ad un pubblico a tratti accecato da una misteriosa luce lattiginosa, come lo sono i vari personaggi colpiti da un’inesorabile epidemia.

Il terrore del contagio, l’isolamento degli infetti in una struttura di contenzione, il progressivo sgretolamento delle regole di convivenza civile, l’insorgere di una bestiale immoralità costituiscono le tappe della pièce, che si conclude con la perdita della vista della protagonista, la moglie dell’oculista, sino a quel momento immune al morbo. La donna che, fingendosi cieca, si era presa cura del consorte e del gruppo, è la sola testimone di quanto è accaduto: a lei tocca il compito di narrare i misfatti e le violenze di un’umanità devastata dagli impulsi più bassi e dall’istinto di sopravvivere.

L’endemia che colpisce la vista assurge a metafora della diffusa incapacità di vedere la verità e, come ne La peste di Camus, ci spinge a rovesciare le consuete categorie interpretative: gli infetti vengono isolati dai sani, per ragioni di sanità pubblica, ma è grazie agli infetti che i sani possono vedere dall’esterno le dinamiche omologanti del potere e le procedure di esclusione del diverso. Le cliniche e le prigioni, per parafrasare Foucault, fungono da specchi rovesciati della società, svelandone i punti ciechi, vale a dire la ferocia e la violenza da essa tollerate e disseminate, portando allo scoperto i suoi fantasmi rimossi.

In analogia con l’inversione semantica suggerita da Saramago, nelle ultime righe del suo romanzo, Luce bianca ribadisce la necessità di una riflessione sul rapporto tra opinione e verità, tra supposto sapere e sapere di non sapere, come se coloro che vedono fossero in realtà ciechi, e cioè perfettamente adattati ad un mondo fatto di ombre: «Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono» (Cecità).

Lo spettacolo messo in piedi da Vania Castelfranchi e da Silvana Mariniello si muove lungo i binari del teatro di regia: l’architettura dei suoni e delle luci, l’utilizzo di un’ingegnosa macchina teatrale, una sedia multifunzionale, cui la protagonista ricorre spesso per estrarvi diversi oggetti scenici, la scelta del registro naturalistico, con qualche impennata espressionista, sono gli ingredienti di una proposta drammaturgica basata sul binomio regista-attore.

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Da "LUCE BIANCA: quella solidarietà umana che ci manca"
recensione di Antonio Mazzuca
(su "L’Artigogolo")

Il DOIT festival apre le danze dell’edizione 2020 con uno spettacolo di livello, intenso, attuale, spiazzante: LUCE BIANCA, prodotto da Sharleena Teatro e Teatro Ygramul MaTeMù/CIES – Roma e liberamente ispirato al romanzo Cecità di José Saramago.

Sul palco un'attrice di esperienza dalla forte carica drammatica, Silvana Mariniello che ha curato la drammaturgia di questa riscrittura per il teatro già prima dell’emergere della pandemia a cui questo testo sembra inevitabilmente legato; ma dietro c’è anche l’ineffabile regia di Vania Castelfranchi del Teatro Ygramul, una regia attenta, sofisticata, che sottolinea ogni parola, valorizza ogni gesto, riempie la scena di elementi uditivi (tanti i rumori di fondo, a volte fin troppo invadenti), visivi (il giro di luci, studiatissimo) e persino olfattivi (per riprodurre il senso di sporcizia che nel testo originale ha un significato di degrado anche morale).

LUCE BIANCA: l’epidemia che tutto trasforma dal Covid-19 alla CECITà di Saramago al DOIT festival

L’intento drammaturgico del Castelfranchi ha rispettato piuttosto fedelmente l’opera originaria dell’autore portoghese, e lo ha adattato ad un monologo dove l’interprete viene chiamata a impersonare più ruoli, (anche se il meglio viene dato con la figura della Moglie del Medico, l’unica vedente in un mondo diventato improvvisamente cieco).

Anche qui, come in Saramago, il Castelfranchi racconta dei primi uomini divenuti ciechi e internati “in quarantena” in un manicomio per evitare il diffondersi del contagio, seguendo la trama originale. Emergono dal buio evocati dall’attrice anche gli altri immortali personaggi (la Moglie del Primo cieco, il Primo Cieco, la Ragazza dagli occhiali scuri): possiamo quasi vederli muoversi, fragili e confusi intorno ad una sedia polifunzionale e mobile, elemento scenografico che si presta a rappresentare diversi contesti (una sedia di una sala d’aspetto, un letto, una scrivania) e che ha diversi artifizi (luci, meccanismi) che la trasformano di volta in volta in un elemento quasi vivo (una caratteristica saliente del Teatro Ygramul è l’uso degli attrezzi scenici) che riempie l’attenzione dello spettatore insieme ad una forte luce bianca, che dovrebbe costringere lo spettatore a provare l’esperienza di cecità descritta da Saramago.

LUCE BIANCA: l’assunzione del Male per liberare gli altri; quel male che non possiamo vedere

Intorno da un raffinato gioco di luci, il testo di Saramago ci appare trasfigurato in un’aurea quasi di sacralità: tutta la performance esalta questo senso di solidarietà umana necessaria, tanto più pregnante ed attuale oggi che il mondo affronta una epidemia vera - quella da Covid-19- e dove la domanda che emerge sottesa e strisciante è : quanto vale il “prendersi cura” l’uno dell’altro al giorno d’oggi? Quanto è importante trovare degli occhi che vedono la realtà e che vedono “te” e ti “mettono al sicuro” dal Male?

In più, il testo accoglie sfumature più femministe proprio legate alla figura della Moglie del Medico, che coraggiosamente prende per mano tutti e soprattutto le donne in un afflato femminile unico, nella rivalsa contro i Ciechi malvagi che le stuprano nel manicomio, in un impeto di ribellione femminista al dominio maschile, sotto-tema di quello più generico di critica al Potere ed alle logiche di asservimento al Bene comune di cui è condito il testo di Saramago.

Coglie nel segno questa performance vigorosa nella riproduzione dell’attrice, ma forte e potente nel valore simbolico che essa riveste, soprattutto sul finale quando la catarsi liberatoria della pioggia improvvisa che colpisce i ciechi liberati, diventa assunzione del Male della cecità negli occhi della Moglie del Medico che, nella versione della Mariniello, diventa lei stessa non vedente rendendo gli altri finalmente vedenti e lasciandoci altre domande: “Quanto siamo portati ad assumere il Male dentro di noi, per salvare gli altri? Quanto siamo pronti? Quanto abbiamo paura del Male che non possiamo vedere, anche quel morbo, il coronavirus che non possiamo vedere?

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LUCE BIANCA - AR.MA TEATRO
recensione di: SARAH PADOAN
(su "Il Foyer")

Nella cornice dell’ Ar.Ma. teatro si svolge, dal 25 settembre al 4 ottobre, il Doit festival 2020. In gara anche "Luce Bianca" monologo di Silvana Mariniello per la regia di Vania Castelfranchi, liberamente ispirato al romanzo "Cecità" di José Saramago.

Il pubblico, accecato dalla forte luce iniziale, è subito chiamato ad aguzzare i sensi: ogni gesto, ogni odore, ogni suono è fondamentale alla narrazione.

In un'epoca non meglio definita scoppia una violenta ed inspiegabile epidemia di cecità da contagio. I malati però, anziché veder nero, sono immersi in una forte luce bianca.

Il governo corre ai ripari rinchiudendo i contagiati ed i presunti tali in un vecchio manicomio promettendo la dovuta assistenza ma lasciando, di fatto, ognuno abbandonato al proprio infelice destino. Qui, gli internati, ridotti a vivere come bestie, mostreranno il peggior riflesso della nostra società.

Solamente una donna, finita tra loro per amore del marito, sembra essere immune al contagio, per quale ragione?

L'impresa del portare in scena un testo come quello di Saramago, in forma di monologo, peraltro, non è certo cosa semplice (chi lo ha letto può certamente capire). Ma Silvana e Vania hanno trovato un connubio ideale tra interpretazione, rilettura e rappresentazione del testo, del quale scelgono di mettere in risalto alcuni tratti e tralasciarne del tutto altri. Il risultato finale è un lavoro equilibrato, nel quale l'attenzione del pubblico è continuamente risvegliata. Un lavoro molto forte e crudo, come del resto lo è il testo originale. L'epilogo, forse, giunge con troppo poco impatto ed il quod non arriva completamente con la giusta forza.

La mimica del corpo di cui Silvana, che nasce artisticamente come mimo, si rivela maestra è centrale e volutamente esasperata strizzando l'occhio alla commedia dell'arte anche attraverso l'utilizzo del burattino.

La scena scura è dominata unicamente dalle luci e da una poltrona da studio medico artigianalmente farcita di iconografie e simboli, di oggetti e strumenti narrativi: la classica macchina scenica barocca. Come barocche sono anche le scelte musicali che arrivano soprattutto a sottolineare (e quasi ridicolizzare) le assurdità, la cattiveria e l'inciviltà dell'animo umano, come in una sorta di teatrino degli orrori. I contributi audio, (comunicati del governo tramite altoparlante) rimandano a pagine nere della nostra Storia e fanno da tappeto ad un crescente scenario apocalittico. Anche il gusto e l'olfatto trovano spazio in questa performance dell'esagerazione che vuole così rianimare tutto ciò che diamo oramai erroneamente per scontato.

La figura della protagonista assume, in questa interpretazione, accezioni femministe e salvifiche (evocate dai simboli sacri sulla poltrona), quasi a conferirle un'aura di santità.

Colpisce la simbologia delle bende che rappresentano necessità primarie, o forse ancor più le zone di comfort, attraverso le quali l'umanità trova giustificazione del rendersi volutamente cieca.

Da sottolineare che, a causa delle nuove normative anti-Covid, lo spettacolo ha dovuto subire alcune modifiche di regia che contemplavano il contatto fisico (il pubblico originariamente entrava in sala per metà bendato, accompagnato dall'altra metà vedente) e l'utilizzo del gusto (la protagonista distribuiva ai presenti pezzi di pane). Le modifiche non hanno compromesso comunque l'efficacia né l'intento di questo ottimo lavoro.